La Libia continua ad essere caratterizzata da un perenne stallo politico, che purtroppo non sembra avere soluzione nel breve periodo, e dalla mancanza di una chiara comunione di intenti da parte degli attori domestici e internazionali necessaria per traguardare la fine di una crisi che dura ormai da oltre un decennio.
Lo scorso 11 marzo, il Rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu, Abdoulaye Bathily, ha presentato la nuova iniziativa per accompagnare il paese alle urne elettorali. L’obiettivo del responsabile della missione Unsmil è quello di riunire tutti gli attori libici per consentire loro di superare l’attuale impasse. Il punto centrale del nuovo progetto onusiano è la costituzione di un Panel di alto livello composto dalle diverse componenti politico-sociali libiche (in ricordo del precedente Libyan political dialogue forum). Tuttavia, permangono diversi dubbi sulla formazione di tale commissione. Il più importante è che, nonostante i rimproveri lanciati dalla stessa organizzazione internazionale, si punti ancora sui due organi legislativi – Camera dei Rappresentanti (HoR) e Alto Consiglio di Stato (Hcs) – che fino ad oggi non sono riusciti a trovare un punto di incontro, nonostante i colloqui e le “false” intese. Diversi sono stati i riscontri al programma lanciato dalle Nazioni Unite. Da una parte, il premier del Gnu, Abdul Hamid Dbeibah, ha accolto con favore la proposta di Bathily; dall’altra, il presidente dell’HoR, Aguila Saleh, ha dichiarato che Bathily non ha il diritto di formare nuovi organismi o autorità esecutive e che si deve eleggere un nuovo governo unico transitorio per attuare le leggi e supervisionare il cammino verso le elezioni. Al contempo, HoR e Hcs hanno formato un comitato 6+6 per trovare un accordo sul quadro legislativo relativo al processo elettorale. La base di partenza è l’intesa sul 13° emendamento costituzionale – approvato da entrambe le assemblee – che definisce i poteri dei futuri presidente e premier, nonché la struttura e le competenze dell’autorità legislativa del paese. Ad oggi, tuttavia, il nuovo gruppo non ha svolto nessuna seduta di lavoro. La “vecchia” classe politica libica continua quindi ad essere protagonista sulla scena e l’interlocutore preferito delle Nazioni Unite, nonostante gli evidenti contrasti e i continui fallimenti degli ultimi anni.
Le elezioni entro fino 2023 sono un miraggio. L’ottimismo di alcune figure non trova riscontro nella realtà. Se, da una parte, l’accordo sul cessate il fuoco – raggiunto nell’ottobre del 2020 – mantiene, nonostante alcune tensioni negli ultimi mesi; dall’altra, le milizie svolgono ancora quel ruolo da protagonisti acquisito con la caduta del precedente regime. I gruppi militari e i loro leader sono diventati determinanti in qualsiasi sviluppo nel paese e la loro ascesa fino ad oggi è stata di ostacolo agli sforzi volti a unificare e riformare i settori della difesa e della sicurezza, processo fondamentale per una democratizzazione definitiva. Su tale punto, è importante evidenziare il recente incontro che si è svolto a Tripoli tra alti ufficiali militari dei due apparati presenti oggi nel paese. Secondo il ministero dell’Interno del Governo di unità nazionale (Gnu), l’obiettivo del colloquio – il primo di questo tipo dal 2015 – è quello di “unificare gli sforzi tesi a organizzare elezioni e istituire meccanismi di comunicazione tra le unità di sicurezza e militari, al fine di porre fine alle divergenze interne e salvare la Libia”. L’avvio della riunificazione dell’apparato militare permetterebbe un miglioramento in termini di sicurezza sull’intero territorio e porrebbe fine alla lotta di interessi che oggi caratterizza il dialogo tra i diversi gruppi armati attivi. Un esempio di tale scontro è l’ultimo episodio che ha visto protagonista la capitale libica pochi giorni fa. L’annuncio da parte del Ministro dell’Interno, Iman Trabelsi, di un nuovo piano per la difesa dei confini per combattere il traffico di migranti ha causato non pochi malumori all’interno del Dipartimento di contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), guidato da Mohamed al Khoja. Il nuovo piano, che limiterebbe i poteri del Dcim, è stato il motivo della marcia di un convoglio militare verso la sede del Ministero dell’Interno. Tuttavia, l’intervento delle forze dell’Autorità per il sostegno alla stabilità ha evitato lo scoppio del conflitto. Il Dipartimento in questione è responsabile della gestione della maggior parte dei centri di detenzione presenti in Libia (una ventina sugli oltre 30 centri). Tutti questi centri, evidentemente, sono gestiti e protetti da milizie. Questo è problematico perché: 1) ciò consente abusi contro i detenuti e 2) i gruppi utilizzano i migranti per i propri interessi. I migranti possono finire nella rete delle unità investigative e di deportazione prima di essere trasferiti nei centri. Anche tali unità sono gestiti evidentemente da milizie, nonostante il loro status semi-formale di appartenenza al Dcim. Questo mostra come le milizie abbiano sempre un ruolo attivo e il potere di plasmare la politica nazionale, in questo caso sul dossier migratorio. La condizione dei migranti, tra l’altro, è riportata anche nel nuovo report pubblicato dalla Missione d’inchiesta indipendente (Ffm) delle Nazioni Unite sulla Libia che ha espresso profonda preoccupazione per il deterioramento dello stato dei diritti umani nel paese maghrebino. Il documento riporta come ci siano diverse prove per affermare che siano stati commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità dalle forze di sicurezza statali e dalle milizie attive sul territorio. L’inchiesta ha documentato numerosi casi di detenzione arbitraria, omicidio, stupro, schiavitù, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate. I migranti, in particolare, sono stati presi di mira ed esistono prove delle torture perpetrate nei loro confronti.
Altra questione sempre aperta è la fuoriuscita dei mercenari e militari stranieri ancora presenti sul territorio libico. Recentemente si è tornato a parlare con più frequenza della presenza del Gruppo Wagner in Libia e nella regione saheliana. Le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo italiano sul possibile ruolo dei mercenari russi dietro l’aumento dei flussi migratori verso le coste europee hanno innescato un dibattito sull’effettiva capacità di tale attore di svolgere un ruolo così determinante. Negli ultimi anni, i mercenari del Gruppo Wagner sono stati dispiegati un po’ ovunque in Medio Oriente e in Africa. Dalla Siria allo Yemen, dal Mali alla Libia, dal Sudan alla Repubblica Centrafricana. Tale attore si è concentrato principalmente sulla protezione delle élite governanti al potere, o su fazioni emergenti, e sulla difesa degli interessi strategici. In paesi come il Mali e la Repubblicane Centrafricana, Mosca ha colto il diffuso malcontento nei confronti della Francia, ex potenza coloniale, per rafforzare la sua presenza e influenza, con la Libia che funge come una sorta di hub per i dispiegamenti nell’area. La posizione geostrategica dell’ex colonia italiana sulla sponda sud del Mediterraneo e la sua ricchezza in termini di risorse naturali hanno attratto la Russia e la sua rete di compagnie di sicurezza private. La presenza militare russa nella regione mediterranea non può evidentemente competere con le forze permanenti della Nato e quelle degli Stati Uniti, tuttavia con l’entrata sulla scena libica e inserendosi di fatto come attore protagonista nel conflitto civile, la Russia, attraverso il Gruppo Wagner, ha schierato delle unità in Libia dalla fine del 2018 a sostegno del feldmaresciallo Khalifa Haftar, capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Wagner ha fornito consulenza, assistenza e capacità di addestramento e, ricorrendo a mezzi indiscriminati, ha aiutato l’uomo forte della Cirenaica ad espandere la sua influenza sul territorio e a prendere il controllo di alcuni giacimenti petroliferi. Tuttavia, ad oggi non pare ci siano elementi determinanti che possano permettere di affermare che il Gruppo sia in grado di tenere le fila su un traffico (quello migratorio) così radicato nella regione e, soprattutto, attivo molto prima dell’arrivo dei mercenari di Mosca.
Proprio la presenza dei mercenari russi e del possibile aumento dell’influenza del Cremlino nella regione nordafricana e subsahariana è da considerarsi come uno dei fattori principali della maggiore attenzione da parte di Washington. Il 24 marzo il presidente americano, Joe Biden, ha presentato al Congresso la Strategia per prevenire i conflitti e promuovere la stabilità: piano decennale bipartisan promosso nell’ambito del Global Fragility Act. Tra i paesi interessati è presente anche la Libia. Nel comunicato vengono presentanti gli obiettivi degli Stati Uniti nel paese nordafricano: tra questi, gettare le basi per un governo nazionale eletto in grado di governare, fornire servizi e mantenere la sicurezza in tutto il paese; supportare “le elezioni nazionali, l’accesso alla sicurezza, alla giustizia, alla responsabilità e alla riconciliazione e agli sforzi di pre-disarmamento, smobilitazione e reintegrazione”; aumentare gli sforzi nel Fezzan, regione importante viste le criticità “del Sahel e dell’Africa occidentale costiera”; dare vita ad un apparato militare unificato; sostenere una crescita economia equa, la lotta alla corruzione e una migliore gestione delle entrate derivanti dal settore energetico. La comunicazione è arrivata pochi giorni dopo la visita dell’assistente segretario di Stato, Barbara Leaf, in Libia dove ha incontrato Dbeibah (Gnu), al-Menfi (CP), al-Mishri (Hcs), Saleh (HoR), Haftar e Bathily (Unsmil), e dopo che il segretario di Stato, Antony Blinken, aveva dichiarato che gli Stati Uniti stanno “attivamente” lavorando per ristabilire una presenza diplomatica nel paese maghrebino (la sede è chiusa dal 2014, quando è stata trasferita a Tunisi). Il mese scorso, inoltre, era stata annunciata la continuazione dell’emergenza nazionale rispetto al dossier libico. Per gli USA, infatti, “la situazione in Libia continua a rappresentare una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera”. L’emergenza nazionale era stata dichiarata nell’ordine esecutivo 13566 del 2011, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act.
Nella stessa direzione va la pressione statunitense su alcuni alleati della regione Mena, Egitto ed Emirati Arabi Uniti su tutti, per provare ad espellere la presenza russa da alcuni teatri critici, come il Sudan e la stessa Libia. L’interessi di alcuni attori regionali continua ad essere determinante per il processo politico libico. Il percorso di normalizzazione delle relazioni avviato tra Turchia ed Egitto potrebbe avere risultati positivi sulla questione libica. Ankara e il Cairo, infatti, restano i due player maggiormente coinvolti nella disputa. Nonostante le diverse aperture diplomatiche, il sostegno egiziano alla regione orientale è ancora forte e concreto. La politica del Cairo nei confronti del paese limitrofo è guidata da molteplici interessi, che vanno dalle pressanti preoccupazioni in termini di sicurezza a considerazioni di tipo economico, passando per questioni politiche e ideologiche. Tutto ciò spiega le contraddizioni egiziane sul dossier libico in questi ultimi anni: se, da una parte, è stato sempre promosso il dialogo politico, dall’altra, il sostegno alla fazione orientale non è stato mai messo in discussione né tantomeno nascosto. Anche la Turchia non ha mai mascherato il suo appoggio alla parte occidentale, come tra l’altro dimostrano gli accordi siglati con il Gnu e la crescente presenza turca in Tripolitania.
Infine, sul fronte domestico, si segnala un forte inasprimento della repressione della società civile. Secondo quanto riportato da funzionari delle Nazioni Unite, diversi attivisti e difensori dei diritti umani sono vittime di arresti arbitrari e intimidazioni. Inoltre, il governo di Tripoli ha confermato la decisione da parte dell’Ufficio legale del Consiglio supremo della magistratura di rendere illegali tutte le associazioni e organizzazioni della società civile nate dopo il 2011, per la mancanza di una norma che ne regoli l’istituzione. Nella Dichiarazione costituzionale del 2011 era prevista l’emanazione di una legge affinché le organizzazioni non venissero strumentalizzate per ledere l’interesse del paese dietro falsi slogan democratici e civili. Ad oggi, la legge in vigore è la n.19 del 2001. Il Gnu è poi ritornato in parte sui suoi passi: lo scorso 21 marzo, infatti, è stato emanato il decreto n.7 che consente ad associazioni ed organizzazioni – locali e internazionali – che operano in Libia di continuare a lavorare in regime di legittimità temporanea fino a quando le loro condizioni non saranno modificate ai sensi della già citata legge n.19. Tuttavia, tale norma – approvata durante l’era di Gheddafi – poneva le associazioni sotto la stretta supervisione dell’Assemblea generale del popolo, a cui erano stati conferiti ampi poteri per interferire praticamente in ogni aspetto dell’esistenza di un’associazione senza autorizzazione o supervisione giudiziaria. Gli emendamenti proposti recentemente si limitano a cambiare il nome dell’organo preposto alla supervisione, ma nulla cambiano in termini di potere e controllo. Ancora, forte dibattito sta creando la recente emanazione (settembre 2022) di una legge in tema di criminalità informatica. Secondo diverse organizzazioni, con l’obiettivo di tutelare l’ordine pubblico e la morale, la legge limita le libertà di espressione e di privacy.
Per concludere, il cammino verso la stabilizzazione del paese pare essere ancora lungo. L’obiettivo della democratizzazione è improbabile senza un sistema strutturato dove il dialogo – necessario per quella riconciliazione nazionale che è sparita dai radar della diplomazia internazionale – è elemento fondamentale. La volontà degli attori influenti – locali e internazionali – continua ad essere quella di tutelare i propri interessi, mentre la Libia e i libici seguitano a navigare nell’ignoto.
Mario Savina
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